La nostra Sezione ha deciso di partecipare alla cerimonia commemorativa del 102° anniversario dello scoppio e dell’affondamento della corazzata Benedetto Brin. Nel corso della cerimonia sarà donato alla città e ubicato nella cripta del Monumento al Marinaio, il modello in scala 1:100 della corazzata Benedetto Brin, realizzato anche con il contributo della LNI Sez. di Brindisi.
La cerimonia avrà luogo mercoledì 27 settembre 2017 dalle ore 10,00, presso il Monumento al Marinaio. Tutti i soci sono invitati a partecipare.
Il mattino del 27 settembre 1915, il sole splendeva nel cielo azzurro di Brindisi. La corazzata Benedetto Brin era ancorata nell’avamporto della città. I marinai procedevano nei lavori di pulizia della nave. Nel quadrato di poppa, l’Ammiraglio Ernesto Rubin de Cervin, teneva il rapporto ufficiali. D’un tratto, erano le otto circa, una tremenda esplosione squarciò l’aria, ripercotendosi lontano, sulla terra e sul mare. Le case di Brindisi tremarono e le navi ancorate nel porto ebbero un sussulto. La Benedetto Brin non si vedeva più. Un’enorme nube, densa e nera, aveva preso il suo posto. Per qualche minuto, solo le fiamme e le urla dei marinai, straziati dall’esplosione, lasciarono intuire la catastrofe. Quando una folata di vento diradò quell’immensa nuvolaglia, la corazzata apparve in tutta la sua orrenda distruzione. Lo scoppio del deposito munizioni di poppa, aveva ridotto la potente nave da battaglia ad un ammasso di ferraglia nera fluttuante sulle acque del porto. In mezzo ai cadaveri ed ai rottami galleggianti, la Brin affondava lentamente di poppa. Mentre divampava l’incendio e nonostante l’imminente pericolo di scoppi, i marinai delle altre navi si lanciarono all’opera di soccorso. I primi a mettere piede sulla Brin furono il T.V. Resasco, comandante della torpediniera d’alto mare Centauro, seguito da due marinai francesi della flottiglia del Borèe, di nome Louis Roussel e Jean Tual. Le loro unità si trovavano a passare le più vicine al momento dello scoppio. Poi, fu una gara commovente di solidarietà, fra le contorte e fumanti ferraglie della bella nave agonizzante. L’incendio a prora fu presto domato, anche per l’inabissarsi del relitto. Le scialuppe raccolsero i feriti e i morti. Una folla immensa s’era ammassata sulla banchina del porto per assistere in silenzio e con angoscia allo straziante spettacolo. Il bilancio della catastrofe fu tragico: perirono l’Ammiraglio barone Ernesto Rubin de Cervin, il Comandante della nave Cap. di Vasc. Gino Fara Forni, quasi tutti gli ufficiali (21) e ben 433 fra sottufficiali e marinai.
Molti altri restarono mutilati o feriti. Per la giovane Marina italiana, ancora ai primi mesi di guerra, il disastro assunse proporzioni psicologiche di sciagura nazionale. Mai si erano avuti in marina tanti morti in una volta sola. La Nazione ne rimase sgomenta. L’emozione fu universale. Nonostante la censura militare, le prime pagine dei giornali furono interamente dedicate all’avvenimento. Durante le operazioni di soccorso, oltre 450 corpi erano stati recuperati ed erano tutti pietosamente allineati sulla banchina del porto e lungo le corsie e nel cortile dell’Albergo Internazionale, già adibito ad Ospedale Militare. Dalle sale giungevano i lamenti dei feriti. Si salvarono soltanto gli uomini comandati a terra per la spesa viveri. Brindisi visse giornate di profondo dolore. In città la gente sembrava impazzita. Dappertutto calcinacci per terra e vetri infranti. Nel porto interno regnava una gran confusione: corvette, torpediniere, lance a motore s’affollavano per prestare soccorso. Non si sapeva ancora con certezza cosa fosse accaduto. Poi arrivò precisa la notizia: era saltata in aria la Benedetto Brin. Decretato il lutto cittadino, furono organizzati imponenti funerali. Le 450 salme dei caduti sfilarono per le vie cittadine scotendo profondamente l’animo popolare. Tutto il popolo di Brindisi si riversò lungo il percorso dello spettacolare corteo, sino al Cimitero.
L’affondamento della corazzata bel porto di Brindisi
Erano accorsi anche dalle città e dai paesi vicini: da Lecce, da Taranto e da Bari. Da ogni parte d’Italia i parenti delle vittime e dei superstiti si erano precipitati a Brindisi sperando disperatamente per i propri cari. Dietro i feretri seguiva immediatamente, in rappresentanza del Re impedito al fronte, il Duca degli Abruzzi, Comandante in Capo dell’Armata. Seguivano poi il Sindaco della città, le autorità tutte, ammiragli ed ufficiali delle marine alleate (inglese e francese) ed una folla di popolo.
Le autorità civili e militari avevano dovuto affrontare un grosso problema: dove e come dare degna sepoltura alle oltre 450 salme martoriate. Tutte le famiglie di Brindisi misero a disposizione della Marina i loculi privati disponibili. L’Amministrazione comunale pose immediatamente a disposizione della Marina un’adeguata superficie di suolo nel centro del Cimitero. Questo suolo fu eretto a Cimitero di Guerra, che in seguito fu chiamato dal popolo: cimitero della Benedetto Brin. Al centro fu costruito un monumento marmoreo sul quale una lapide ricordava: Il 27 settembre 1915 – funestamente affondava in questo porto – e andava distrutta – la R. Nave Benedetto Brin. Nel porto di Brindisi, al momento del disastro, oltre alle navi italiane, c’erano le navi inglesi e francesi: in tutto 27 unità. Fu proprio durante l’alzabandiera a bordo dell’incrociatore Vittor Pisani, che si udì la tremenda esplosione. Guardando verso il forte a mare, dove c’erano ancorate le navi più grosse, i brindisini videro un’enorme nube nera che si levava per centinaia di metri nel cielo. Dopo qualche attimo di smarrimento intuirono che era successo qualcosa di grave. Motobarche ed altri mezzi navali si avventurarono in quell’impenetrabile cortina di fumo nero. Poi ne uscirono, per tornare indietro con spaventosi carichi di resti umani sanguinanti e bruciacchiati. Le operazioni di soccorso si protrassero per tutto il giorno. Solo nel pomeriggio la nube di fumo si diradò del tutto ed apparve la Brin semi affondata. Con l’esplosione, la massa compatta della torre binata poppiera da 305/40 saltò in aria e poi ricadde violentemente sul fianco sinistro della corazzata. Relitti di ferro sembravano cadere dal cielo per vasto raggio intorno alla nave. Tutta la coperta poppiera era stata spazzata via insieme con quanti si trovavano a bordo. L’intera poppa era sott’acqua, mentre la prora emergeva all’altezza dei pezzi da 152. Non esistevano il fumaiolo di prua e l’albero di trinchetto. La nave si era adagiata sul fondo fangoso che in quel punto aveva la profondità di dieci metri. Tutto intorno ad essa galleggiavano relitti d’ogni genere che rendevano impraticabile il mare per un raggio di centinaia di metri. La Benedetto Brin, che portava il nome del grande Ammiraglio che rinnovò la Marina da guerra italiana, era una tra le più potenti navi da battaglia costruite nel mondo. La sua perdita, dopo quattro mesi di guerra, fu un duro colpo per la difesa nazionale e portò alle dimissioni del Ministro della Marina, Ammiraglio Viale, e del Capo di Stato Maggiore, Thaon de Revel. In quel periodo lo spionaggio nemico minacciava le nostre navi ed i nostri porti sull’Adriatico. La guerra segreta, fatta d’intrighi e di tradimenti, raggiunse la flotta nelle sue basi più importanti, utilizzando una fitta rete di spie e di sabotatori che gli imperi centrali avevano organizzato in tutto il mondo.
Numerose organizzazioni spionistiche nemiche furono scoperte in Europa. La centrale di questa complessa attività operava in Svizzera, che, per la sua qualità di nazione neutrale in cui si parlavano diverse lingue, ospitava persone equivoche e criminose (specialmente nella città di Ginevra). Il Governo italiano nominò una Commissione d’inchiesta per appurare le cause dell’esplosione della Benedetto Brin e le eventuali responsabilità del personale civile e militare competente. La Commissione dell’epoca, dopo lunghe indagini ed estenuanti interrogatori, presentò la relazione conclusiva all’On. Salandra. La perdita della nave fu dovuta ad un atto di sabotaggio da parte di agenti nemici.
Nel 2015, a 100 anni esatti dall’evento, la Marina Militare ha ufficialmente dichiarato che: “Come ormai acclarato, si trattò di una disgrazia non diversa da quelle accadute in altre marine da guerra dell’epoca: la causa dell’affondamento era infatti da attribuire ai nuovi esplosivi utilizzati per le cariche di lancio e di scoppio che, indispensabili e sempre più potenti, erano stati introdotti da troppo poco tempo perché se ne conoscessero tutte le caratteristiche relative alla loro stabilità.”
Perirono 21 ufficiali e 433 i sottufficiali e i marinai, tra i quali l’ammiraglio Rubin de Cervin comandante della 3a Divisione Navale della 2a Squadra e il comandante della nave Fara Forni.
I superstiti furono 9 ufficiali e 473 fra sottufficiali e i marinai.